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the cinqueterrewine&man

DIETRO AD OGNI BICCHIERE DI VINO C’E’ IL LAVORO DI UN UOMO

Produttori in Riomaggiore Cinque terre, viticoltura eroica

in ogni vino che bevi puoi sentire lo stile e la personalità dell’uomo vignaiolo”

la terra, il sole, il vento, il mare sono ingredienti del vino Cinque Terre


“ogni bottiglia di vino ha la sua storia, ogni anno ha il suo vino”

“il vino in bottiglia è vivo, si muove e si evolve sempre”

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Cinque Terre: l’emozione di un trenino a cremagliera lungo la Costa de Sera. Vigne e vini di Campogrande

Non sai veramente cosa significa scendere in verticale con il trenino a cremagliera lungo le terrazze di Riomaggiore finché non l’hai provato. A me è successo lo scorso ottobre. Yvonne Riccobaldi mi dà appuntamento alla galleria Lemmen sulla litoranea. Originaria di Manarola, Yvonne è enotecaria, ristoratrice, sommelier professionista: già delegata provinciale AIS, vanta un premio come miglior sommelier di Liguria in bacheca. Mi aspetta per fare un giro nelle vigne della cantina Campogrande, assurta a una certa notorietà per essere l’azienda ligure di Elio Altare, capostipite dei Barolo Boys.

Ma non ho appuntamento con Elio Altare, bensì con il suo socio Antonio Bonanni, detto Tonino, nato proprio qui, a Riomaggiore, nel 1948, tifoso genoano, uomo di mare e di terra, venti mestieri prima di fare il vignaiolo, gli anni novanta trascorsi in Sudamerica, tra Cuba, Colombia e infine il Venezuela, dove si trasferisce nel 1993 gestendo in società un piccolo albergo, alternando tre mesi di lavoro ad altrettanti di ferie: «Andavo in giro per i Caraibi su uno yacht con un equipaggio di tre persone. Tra donne e Champagne ho speso i soldi per comprare un grattacielo».

Saliamo sul trenino a cremagliera: Tonino alla guida, io e Yvonne sul carrello davanti. Dapprincipio ci si muove lungo un binario in rettifilo. Sul lato scorrono in travelling le soggettive delle terrazze vitate, delle vigne sparse, della macchia marina e mediterranea che avvolge e profuma tutte le scogliere di questo angolo fatato delle Cinque Terre. Il trenino viaggia ancora in orizzontale verso il mare, il cui timbro blu lo distingue dal cielo più azzurro con le sue nuvole in viaggio. Si intravedono attorno promontori e dislivelli. Poi il binario si getta nel vuoto di un abisso: la sua curva scende a picco, sparendo alla vista e lasciando nel centro del petto quel timore ancestrale della vertigine che ti attanaglia ogni volta che scendi con l’ottovolante al luna park, facendoti urlare di paura.

Qui però non urli, perché sarebbe inopportuno, sconveniente, imbarazzante e perché bisogna essere uomini, suvvia, ma tra le labbra affiora un’imprecazione digrignata tra i denti che è una difesa naturale contro il panico. Fiondo l’occhio dentro il mirino della reflex e scatto a più non posso per neutralizzare la vertigine. Poi il trenino scende in verticale, ma lentamente, senza la velocità delle montagne russe, e tutto si riassesta, il vuoto viene riempito, l’occhio è inebriato dall’emozione del paesaggio e dalla meraviglia della traiettoria: il mare è sempre più vicino, sembra quasi di scenderci in grembol’aria un balsamo, i colori un gioioso sfavillio e un assieme di stupori. Superato il timore atavico della caduta, vorresti che quel tragitto non finisse più, che si rinnovasse per sempre l’attimo del contatto tra la tua esistenza d’aria e quel flutto di contrasti celesti. Il volo si ferma, con il trenino inchiodato in diagonale sul binario. Va ben posizionato, altrimenti si rischia di cadere lungo qualche dislivello invece di scendere a terra. Oggi facciamo i turisti, ma d’estate questo mezzo viene usato quotidianamente per il trasporto delle cassette d’uva: un lavoraccio.

Camminiamo sul ciglio delle terrazze di Serra, cru nascosto e impervio di questa meravigliosa costa delle Cinque Terre, in mezzo a una vegetazione ancora lussureggiante, calpestando rocce friabili, qui chiamate “tarso”, lo sguardo attratto dalle pareti a strapiombo sul mare. Qui è tutto bosco: il vitigno, beninteso, non l’assieme degli alberi. «Odio il vermentino, perché è un’uva ruffiana da profumi immediati che poi se ne vanno. Qui non c’è mai stato», commenta Tonino. Siamo a 80, forse 100 metri dal mare, nell’incanto della Costa de Sera. Millecinquecento metri quadrati di vigna, forse meno. Vigne di sei anni, impiantate di recente a filare. Gli innesti risalgono ai primi anni Duemila: gli appezzamenti erano rimasti abbandonati e ricoperti dal bosco (quello degli alberi, non il vitigno).

«Qui c’erano vecchie pergole che producevano un’uva da tavola che veniva venduta al mercato. Mia nonna mi raccontava che scavavano delle buche nel terreno per far inciampare i concorrenti, in modo che fossero loro ad andare per primi al mercato di Riomaggiore. Era una guerra tra poveri». I duemilacinquecento metri di vigna del Campogrande, o “Cianun” nel dialetto locale, si estendono più in là sul sentiero, nella parte più alta della collina di Serra. Piante del 2002, bosco dappertutto con l’eccezione di un 15% di canaiolo da cui si produce il rosso. «Sono vigne perfette per l’acidità». C’è una casetta di pietra dove venivano allevate le capre, utili per il letame.

Torniamo indietro. La macchia profuma in modo irresistibile. Risaliamo sul vagone del trenino. Retrocede. Rientriamo. Lo spazio si curva all’indietro, la verticale è tutta in retromarcia. Un’ipnosi. Ritorniamo in cima, “a monte”. Con l’auto entriamo nel borgo di Riomaggiore. La cantina è in una casetta del centro. Nelle Cinque Terre le cantine sono spesso ricavate nelle case private, luoghi circoscritti, talvolta angusti, in cui ci si muove a fatica.

Il Cinqueterre 2015 è composto da bosco 80% e albarola 20% vendemmiati tra il 22 e il 23 di agosto, con 36 ore di macerazione sulle bucce, torchiatura, fermentazione spontanea molto lenta, imbottigliamento senza filtrazione e chiarifica. Il vino ha colore dorato intenso, un naso di calore mediterraneo che lentamente rilascia sensazioni di fiori gialli, elicriso, mirto, agrume candito. Palato pieno, strutturato, solido, sottilmente speziato, che conquista per l’energia non priva di sfumature. «Il 2015 è stato l’ultimo anno in cui Elio Altare ha schiacciato l’uva. Ora lo fa mio nipote Simone, classe 1992, che studia enologia e segue la cantina con la consulenza di Elio», dice Tonino.

Il Cinqueterre 2009 ha un paglierino dorato più luminoso del 2015. C’è aria di mare al naso, sentori salmastri e desinenze nocciolate. Ha palato austero, tonico, asciutto, teso, contrastato, salato, verticale. «Da giovane era una spremuta di pompelmo», ricorda Yvonne.

Poi arriva il Telemaco 2012. Un Cinque Terre passato in barrique ed escluso dalla denominazione. Ha colore dorato intenso e acceso, giallo come la ginestra, e un olfatto che è tripudio: erbe, arbusti, fiori gialli, acacie, tiglio, spezie, macchia mediterranea selvatica e spontanea, mirto, aria di mare. Palato succoso e invitante, boisé perfetto e spezie nobili, toni fumé e timbri salmastri, grande allungo e grande vibrazione, legno francese e carattere italiano, anzi ligure, finale incessante di mare, di erbe, di limone candito. Allungo acido-salato. La bottiglia tiene meravigliosamente il contatto con l’aria: ho assaggiato e riassaggiato questo vino per settimane.

Il Rosso 2017 (ma l’annata non è segnata in etichetta essendo un vino da tavola) declina l’uvaggio (80% di bonamico e canaiolo + 20% di altre varietà a bacca rossa) con una fermentazione e una maturazione in barrique usate della durata di dieci mesi per un quadro selvatico, succoso, slanciato: piccoli frutti rossi, spezie, amarena, ciliegia schiacciata, visciola.

Notevole per qualità e carattere anche la produzione dei vini dolci. Lo Sciacchetrà 2010 nasce da un appassimento delle uve per due mesi e da venti giorni di macerazione sulle bucce: colore ambrato-arancio, naso di sentori marini, di frutta secca (noci), di miele di castagno, palato di mallo di noce, di note balsamiche, di uva passa, di nocciola tostata, di alcoli nobili.

«Non sono ancora soddisfatto del mio Sciacchetrà», commenta Tonino con un evidente quanto sincero eccesso di severità. «Quello di mio padre era uno spettacolo. Non lo vorrei così velato». Ancora più fragoroso il Telemaco Dolce 2010, un “Super Sciacchetrà” inevitabilmente sganciato dal disciplinare e prodotto in quantità confidenziali (110 litri). Appassimento delle uve per trenta giorni e quattro anni di caratello in rovere. Color arancio-mogano intenso. Esplosioni olfattive di erbe, mirto, tutti i cespugli della macchia mediterranea, scorza d’arancia sanguinella. Palato denso, dolcissimo, sensuale, di bellissimo soffio alcolico e continui input di mallo di noce, di “caramello marino”, di agrume candito e zuccherino. Finale incessante, elegiaco.

Produttori a confronto, ieri e oggi

IMG_20190519_145945_3 (1) Il vino delle cinque terre oggi è espressione di Uomini!

Quelli di ieri che hanno lasciato in eredita un patrimonio inestimabile, dalla caparbietà alla forza, dalla sopportazione all’umiltà, dai muri a secco fatti di sassi e manate di terra, a terrazzamenti vitati e oggi ancora  troppo nascosti sotto alberi e arbusti. Gli uomini di ieri hanno lasciato dei modi di dire, dei proverbi, dei dialetti, delle usanze, delle tradizioni, degli oggetti di cantina…e da tutto questo sono ripartiti i vignaioli di oggi !!!Gli uomini di ieri hanno lasciato la conoscenza del proprio territorio, dei propri vitigni, la consapevolezza che la natura comanda. I vignaioli di oggi recuperano, assorbono, ricordano, fanno tesoro dell’immenso patrimonio ricevuto in eredità, dalla terra, un tempo coltivata, alla cura della vigna, dalle dicerie sul clima, ai proverbi in dialetto che spesso parlano di vino.Ricordano la voce dei loro vecchi che gli insegna a legare la vigna e a raccogliere i grappoli. Ricordano l’assaggio in cantina, vino lasciato a riposare in una damigiana e tirato su con una cannetta, i vignaioli di oggi, allora bambini, fremevano dalla curiosità di sentirne l’odore e il gusto.Oggi ricordano !!

 

le origini

IMG_20190424_141358_2 (1)Dal libro ” lo straniero indesiderabile” di Pietro Riccobaldi, mio zio….

Nel ’19, mia madre ebbe un altro figlio Angiolino, l’ottavo.Un giorno che, come spesso capitava, brontolavo per lo scarso pasto, mia madre  mi disse:” siamo tanti in famiglia, come possiamo avere di più?”  ” perchè li hai fatti” risposi…fu come una frustata in faccia, mia madre, stupita per la mia impudenza, rimase con appena il fiato per mormorare ” dio li manda”.Avevo diciotto anni, un uomo pieno ormai.La risposta di mia madre mi parve fuori tempo, lo scontro fra il vecchio e il nuovo aveva anche questa altra faccia.Con Angiolino, mio padre non provò la vita di seminario, aveva superato i cinquanta e vedeva che i figli cercavano strade diverse, Angiolino poteva essere l’erede cui lasciare il campo e la vita, lo stile di vita nel quale mio padre aveva fermamente creduto.

Angiolino era mio padre.

Yvonne

I vigneti tra le rocce

“Le Cinque Terre sono un superbo spettacolo paesistico e sono insieme un monumento incontaminato all’’operosità  della razza umana che vi abita (liguri autentici, quasi introvabili altrove), proprio per la massiccia e singolare presenza di tanti vigneti che scalfiscono e rigano le pareti dei colli, sopra e attorno ai paesi, in ogni spazio possibile, anche il più esiguo, che se non c’è un poco di terra bisogna portarcela con le corbe  e contenerla lassù con un muro a secco, spaccando la stessa natura di roccia col duplice scopo di ricavare uno stretto pianoro e di arginarlo sullo strapiombo. Finisce il mare con le sue spume bianche frangenti tra gli scogli e subito salgono le muraglie dei monti come una ripida spalliera e i cinque paesi sono mucchietti di case incastrate su una prua di terra, nella strettoia di un’insenatura……fino alla quota di 5/600 metri, ai margini della macchia e dei boschi arsi, sono tutti filari e pergole basse di vigna….i sentieri sono scale, centinaia e centinaia di gradini da salire e scendere con fiato grosso…il vigore degli uomini e delle donne e il loro coraggio sono cresciuti su quelle scale….”

dal libro “La Liguria del Buon vino” 1976- Giannetto Beniscelli, libro trovato in una cantina, lasciato ad impolverarsi e anche a P1120332…ora è fra le mie mani!

In vigna tra mare e cielo

 

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Monterosso

Il terzo e ultimo appuntamento con i vignaioli prevedeva oggi la visita ad una nota cantina di Monterosso. Indossate come sempre le nostre scarpe da trekking siamo arrivati finalmente in vigna dove ci aspettava il produttore.

Qui i campi non sono così frammentati come a Manarola e Riomaggiore, il terreno è tutto di proprietà dei vecchi e si trovano in un unico sito. La coltivazione è per lo più in filari perché più facili da gestire. Il produttore ci dice che si stanno espandendo e hanno trovato nuovi campi, questa volta sparsi, nei quali provare un po’ di sperimentazione. Le vigne sono più o meno vecchie, si passa dai 12 anni del piccabùn (vitigno autoctono) ad altre vigne di trenta e altre ancora di cinquant’anni; il produttore me le indica pieno di orgoglio.

La gestione è familiare e si tramanda da generazioni. Il produttore è timido e per avere informazioni bisogna fare tante domande. Ma quando parla del proprio territorio e del proprio vino allora il volto si illumina, gli occhi splendono dall’entusiasmo e non smette di raccontare la propria esperienza. Anche qui la passione regna sovrana.

Ci racconta che i trattamenti sono pochi e si limitano allo zolfo e al rame, usati solo quando indispensabili; la concimazione è naturale.

Le uve che utilizza sono per lo più bosco (circa il 50%), poco vermentino e albarola, in più utilizza tre varietà autoctone, difficili anche da scrivere e pronunciare: piccabùn, brusapagia e frapelà.

La vinificazione, ci racconta, è simile a quella di un vino rosso: il mosto resta per tre giorni sulle bucce e poco dopo parte la fermentazione spontaneamente, dopodiché viene travasato nelle botti d’acciaio e li rimane almeno sino a giugno. Verso febbraio – marzo parte, sempre spontaneamente, anche la fermentazione malolattica che dona al vino un po’ più di morbidezza e lo stabilizza. Il vino non viene mai filtrato se non prima di essere imbottigliato, con una microfiltrazione, dopodiché si cerca di effettuare un affinamento in bottiglia, ma non sempre si riesce per via della grande richiesta.

La produzione è poca e varia di anno in anno. Il 2018 è un anno ricco per cui ci saranno circa 3500 bottiglie più altre 1200 della nuova sperimentazione.

La vera magia si ha poi quando finalmente si assaggia il vino. Un bellissimo colore dorato intenso che ci richiama la permanenza sulle bucce, al naso fiori maturi, quasi appassiti, come la ginestra; il salmastro esplode sia al naso che in bocca e domina assieme alle erbe aromatiche, elicriso in primis. Un vino che è piena espressione del territorio e soprattutto il risultato di una forte passione e di un grande entusiasmo.

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Visita invernale in vigna

 

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Riomaggiore

Sono diversi anni che, insieme al Parco Nazionale delle Cinque Terre, organizziamo una serie di incontri formativi rivolti agli operatori turistici del territorio al fine di valorizzare e far conoscere le “vere” Cinque Terre.

Dopo alcuni incontri tecnici, nei quali l’obiettivo è quello di mettere in condizione tutti gli operatori di comunicare al turista la storia, le tradizioni e il vino delle Cinque Terre, si indossano le scarpe adatte e iniziano le visite in vigna, presso le aziende dei diversi produttori.

Ieri mattina era una giornata bellissima, soleggiata e tersa; dalla litoranea sopra Riomaggiore, rivolgendosi al mare, oltre l’orizzonte, si riuscivano a scorgere le isole Capraia e Gorgona, la Corsica, parte della costa toscana e la riviera ligure sino ad arrivare alla Francia, sulla quale svettavano il Monviso e le Alpi piene di neve.

Ci ha accolto il primo produttore e, portandoci in mezzo ai suoi fazzoletti di terra coltivata a vigneto, ci ha trasmesso la sua gioia, la sua serenità e il suo entusiasmo raccontandoci del suo lavoro. In questi ultimi anni è riuscito a recuperare piane abbandonate da decenni, riportandole a una produzione di uva di altissima vigoria e qualità. E’ riuscito a pulire piane sino a pochi metri dal mare, con l’intento di riprendere l’antica usanza, in tempo di vendemmia, di trasportare le corbe piene d’uva in paese.

Con orgoglio ci spiega come si impegna a utilizzare il più possibile prodotti naturali sulla terra e sulla vigna, facendosi aiutare da una stazione meteo di ultima generazione, così come facevano i vecchi, i quali, in base al suono delle campane, sapevano se fare o meno il trattamento alla vigna. Con altrettanto orgoglio ci racconta dell’ottima idea avuta per tagliare l’erba e concimare, senza far uso di diserbanti e concimi chimici, adottando delle galline e soprattutto delle oche.

In questo spettacolare contesto abbiamo poi assaggiato il suo vino rosato e, in anteprima, il passito bianco. Entrambi marcavano il territorio e la personalità del produttore: roccia, macchia mediterranea, mare, sale e passione.

 

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Manarola

 

Nel primo pomeriggio era previsto l’incontro con il secondo produttore, questa volta a Manarola e in un luogo altrettanto magico e spettacolare: a mezza costa nell’anfiteatro naturale che sovrasta il paese. Qui il produttore ci ha raccontato delle difficoltà incontrate per riunire tutti i terreni che oggi coltiva a titolo gratuito; i vecchi che spesso, sino all’età di ottant’anni, riescono ancora a coltivare ma, avanzando con l’età, pur di non vedere il proprio campo in abbandono, lo cercano e glielo lasciano.

Ci confida che la sua scelta di vivere soltanto di questa attività, seppur con grandi difficoltà, è da privilegiati poiché poche persone si possono permettere di lavorare in una terra così aspra e fragile ma, se ben curata, anche generosa e che, tutto sommato, grazie al lavoro sui terrazzamenti e sulle colline sostenute dai muri a secco, lasciato in eredità dai vecchi, oggi sembra quasi più semplice. Ma non bisogna dimenticare quanta fatica e quanto lavoro siano necessari per mantenere le vigne e per realizzare un ottimo vino in questi luoghi così impervi.

E’ stato molto piacevole vedere con quanto entusiasmo promuovesse il lavoro di squadra di tutte le aziende locali e il lavoro effettuato dalla Fondazione Manarola per il recupero dei campi incolti.

In cantina abbiamo assaggiato il suo vino e ci ha raccontato come lo vinifica, esaltando i profumi del vermentino senza assolutamente trascurare la struttura e la sapidità dell’uva bosco in bocca.

Conclusioni: due produttori che si mettono in gioco, con diversità di stile produttivo, ma con una luce negli occhi che sa’ di forza, coraggio, orgoglio, passione che li accomuna.

L’importanza delle Radici

radici

Partiamo da qui, dalle radici…
Nella foto si vede un vecchio tino di cantina che utilizzavo insieme a mio padre, mio padre insieme a suo padre e i suoi fratelli, e indietro così… era qui che si pestava l’uva. Nelle Cinque Terre questo era il loro mestiere ed era questa l’economia delle famiglie: IL VINO!! Oggi il mondo si è accorto che questi paesi sono bellissimi… vero, ma cosa li ha resi così unici, così esclusivi? La terra, che ha da sempre reso onore e restituito un prodotto che ancora oggi possiamo avere, con sacrificio ma anche con gioia. Ecco perché nasce “A pie de Campu”, per farlo sapere a chi vuole guardare indietro e conoscere meglio la storia, le persone e la loro vita in questo paradiso di Liguria. Yvonne